I nostri bambini hanno una grande dimestichezza con il principio di distruzione: già a sette, otto anni hanno alle spalle una buona carriera di accoppatori di zombie, mostri, poliponi, brutti ceffi, tutti regolarmente liquidati da raffiche precise sparate nel videogioco. Loro stessi, come del resto accadeva da bambini anche ai loro fratelli maggiori e ai loro padri, spesso “muoiono”, perché colpiti a tradimento dal nemico di turno.
“Mi restano ancora sette vite”, garantisce mio figlio come un gatto, e riprende la sua battaglia immaginaria. E’ il gioco delle parti, una finzione teatrale in cui si ammazza e si crepa senza mai soffrire. In questi giorni, però, mi sono chiesto se i bambini devono avere un contatto reale con la malattia e la morte, o se non è il caso di intristirli inutilmente. Una zia sta male, e poi sta peggio, e viene ricoverata in ospedale o in clinica, smagrisce, tossisce tremendamente, la luce brillante del suo sguardo si opacizza, la sua solita allegria si spegne poco a poco. E poi, una notte, muore. C’è la camera ardente, i fiori attorno alla bara, e nella bara il corpo senza più vita, il cadavere – oh, che parola orribile. Ci sono gli amici di sempre, i parenti adulti, qualcuno piange, gli altri fuori parlano a voce bassa, ricordano, sospirano. E i bambini non ci sono, perché sono piccoli, innocenti, spensierati, perché non è il caso di farli incupire, di spaventarli. Non devono sapere che si muore, o forse sì, ma nei libri, nei film, nei videogiochi, dove si possono ancora sistemare le cose, dove nulla è veramente reale.
Il bambino deve sapere tutto, l’inglese, lo spagnolo, la musica, deve frequentare la scuola calcio, il judo, la piscina, deve migliorare, crescere, attrezzarsi per un futuro sempre più incerto: ma non deve sapere nulla della morte. Povera stella, lo vogliamo far piangere per zia? Non è meglio che se la ricordi simpatica e splendente, mirabilmente viva? E’ una rimozione profonda, la perdita della dimensione metafisica, assoluta, verticale: senza il contatto con la morte, la vita può confondersi, perdere la giusta valutazione degli eventi, imbrogliare la gerarchia dei valori. Credo che l’assunzione interiore dell’idea della morte non peggiori l’esistenza, tutt’altro, rende prezioso ogni giorno, ogni momento, abbassa ogni presunzione e ogni superbia, ci fa sentire parte della grande famiglia dei viventi – esseri umani, animali, alberi – destinata goccia a goccia a svanire e a ricrearsi.
Chi ha visto e capito la morte, ama la vita, perdona, avverte l’unità del tutto, l’energia che ci lega e ci slega. Il bambino che non ha visto, l’adolescente che non ha meditato, hanno perso un’occasione per avvicinarsi di più al senso ultimo dell’esistenza. Se viviamo nella distrazione, moriremo nell’insensatezza.Fonte
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