Fatemi abortire per vivere” Il dramma di Isabel arriva in tribunale

Abortireth
Suo figlio nascerà comunque morto,
ma la legge le impedisce d’interrompere la gravidanza
Il vescovo di San Salvador: «E’ uno stratagemma per legalizzare l’aborto, siamo contrari»
gian antonio orighi
Madrid

Il dramma di Isabel, 22 anni, sta scuotendo El Salvador. La giovane donna incinta di 4 mesi, che soffre di Les (Lupus eritematoso sistemico, una grave alterazione del sistema immunitario), e di insufficienza renale, con la salute tanto peggiorata per la gravidanza da mettere a rischio la sua vita

e con il figlio in grembo che nascerà morto perchè anencefalico (senza cervello), chiede disperatamente che le sia permesso l’aborto, che però è sempre proibito nel Paese centro-americano come in Cile, Repubblica Domenicana, Honduras e Nicaragua.

Isabel, che se abortisse illegalmente rischierebbe 8 anni di galera, si è rivolta al Tribunale Supremo, che sta vagliando il caso. Il rappresentante dell’Onu a El Salvador, Roberto Valent, appoggia la sua richiesta, come la ministra della Salute, María Isabel Rodríguez. Amnesty Internacional tuona: ”La sua sopravvivenza dipende dalle autorità e ogni ritardo è crudele e disumano”. Ma il vescovo di San Salvador, José Luis Escobar, è contrario: “Sembra uno stratagemma per conseguire la legalizzazione dell’aborto. Chiedo all’Alta Corte di ricordare che per la Costituzione una persona umana è tale dal concepimento”.

LaStampa.it

La clinica degli orrori del dottor Gosnell

«Ufficialmente» praticava aborti oltre il limite. Ma l’accusa è omicidio di bambini e una donna con metodi agghiaccianti.

Il dossier di 18 pagine del Gran Giurì si intitola “The Intentional Killing of Viable Babies” (l’uccisione volontaria di bambini vivi). Parla di una vicenda di cronaca agghiacciante che vede protagonista un medico abortista di Philadelphia e una clinica dove avvenivano una serie di orrori inimmaginabili. Una vicenda che ora viene alla luce grazie all’inizio del processo.

LIMITI LEGALI – Kermit Gosnell praticava aborti fuori dai termini previsti per legge nella Women’s Medical Society di Philadelphia, dove operava e di cui era proprietario, ma nessuno avrebbe immaginato che dietro quella formula illegale si nascondessero tali orrori. Niente a che fare con il dottor Wilbur Larch, il medico abortista de Le Regole della casa del sidro, che operava dopo la ventiquattresima settimana (termine legale negli Usa), ma era mosso da un sentimento di solidarietà nei confronti delle donne in difficoltà. I fatti in questione risalgono al 2009 e disegnano una situazione disumana e piena di orrori di varia natura, al di là dell’aborto. I testimoni (tra i quali anche diversi imputati nel processo) parlano di utilizzo di attrezzature non sterilizzate, di ambienti sporchi, di metodi barbarici che prevedevano di tagliare con le forbici la colonna vertebrale dei piccoli (il medico lo chiamava snipping), di feti congelati o a brandelli, conservati in confezioni di succo di frutta o in contenitori di cibo per gatti. Il 18 febbraio 2010 l’FBI entra nella Philadelphia Women’s Medical Society, alla ricerca di prove riguardo una vicenda di medicinali venduti illegalmente. Ma gli agenti si trovano di fronte a un film dell’orrore.

 

A sinistra Karnamaya Mongar, la donna di 41 anni uccisa da Gosnell (Ap)A sinistra Karnamaya Mongar, la donna di 41 anni uccisa da Gosnell (Ap)

COPERTURA MEDIATICA – Pochi ne avevano parlato sui media americani e la notizia era rimasta nel circuito dei media locali. Finché due articoli hanno riportato a galla la vicenda, parlando di decapitazione infantile, di pianti di bambini e di altri orrori, definiti dall’editorialista del The Atlantic Conor Friedersdorf «una storia di bambini morti, donne sfruttate e razzismo che avrebbe dovuto finire già da tempo sulle prime pagine». Ora inizia il processo (per l’esattezza è iniziato il 18 marzo) in cui il settantaduenne Kermit Gosnell è accusato della morte di sette bambini nati vivi e di una donna di 41 anni, di abuso di cadavere, di uso indiscriminato di farmaci, di concorso a delinquere finalizzato all’omicidio e di corruzione.

L’ORRORE – Nella clinica del dottor Kermit Gosnell, secondo il personale infermieristico e altri testimoni, molti bambini sono stati di fatto uccisi dopo la nascita, dopo aver subito il taglio della colonna vertebrale con un paio di forbici o con altri metodi agghiaccianti. E in questi giorni sulla stampa straniera stanno emergendo tutti i dettagli della vicenda, compreso uno dei metodi abortisti più utilizzati, consistente nel far partorire anticipatamente le donne che espellevano il feto sedute sul water. Secondo una delle testimonianze è persino capitato che un neonato cercasse disperatamente di riemergere dall’acqua del water, assecondando vanamente l’istinto di sopravvivenza che si possiede già appena nati.

NON È UNA QUESTIONE DI ABORTO – La clinica degli orrori ha diviso ancora una volta l’America sul tema dell’aborto e soprattutto su come viene trattato dalla stampa, ma a ben vedere non ha molto a che fare con la difesa o meno della vita intrauterina né con la libertà di scelta della donna. Ha semmai molto a che fare con le disuguaglianze nelle cure mediche e nell’accesso alle interruzioni di gravidanza al confine della legalità, che portano alcune donne a scelte disperate. Stephen Massof, vice di Gosnell, è stato tra i primi testimoni (ve ne sono molti, tutti anche imputati, compresa la stessa moglie di Kermit Gosnell) a parlare del taglio disumano del midollo effettuato sulle creature ed è ora in carcere, condannato per la morte di due neonati. Pare anche, secondo Massof, che l’età del feto venisse contraffatta grazie ad apparecchiature che lo facevano sembrare più indietro nello sviluppo. Né chiaramente veniva osservato il protocollo che vorrebbe che la donna riceva un’accurata consulenza psicologica e medica prima di avviare la procedura di interruzione. Sempre secondo i testimoni, ogni tanto Gosnell ironizzava sulle dimensioni dei feti uccisi. Come nel caso di Baby-boy A, sette mesi e mezzo di gestazione, ucciso e poi rinchiuso in una scatola da scarpe dopo che il dottor Gosnell aveva commentato: «E così grande che potrebbe accompagnarmi alla fermata del bus». Mentre Baby-boy C, vittima dell’orripilante snipping, come prima e unica cosa nella sua breve vita ha visto un paio di forbici.

corriere.it

Aborto: la chiesa apre al perdono

Luca Molinari
Aumentano i luoghi dove si può assolvere chi abortisce. A Parma  il vescovo Enrico Solmi ha firmato un decreto che offre la possibilità a qualsiasi sacerdote di «rimettere il peccato di aborto», che  prevede la scomunica,  oltre che in determinate chiese della diocesi, negli ospedali e nelle case di  cura. Il diritto canonico prevede da sempre la possibilità di  questo gesto, ma lo limita al vescovo e a un numero ristretto di figure.
Una   decisione  che  mira ad offrire maggiori opportunità
di riconciliazione ai fedeli che hanno commesso peccati gravi. «Nella Diocesi di Parma – spiega don Luciano Genovesi, cancelliere vescovile – il vescovo, con un decreto  ad hoc, ha concesso la facoltà di assolvere dal delitto di procurato aborto a tutti i sacerdoti che celebrano la riconciliazione dei penitenti   in Duomo,
nella Basilica Minore della Steccata, nel Santuario di San Guido Maria Conforti, nel Santuario della Beata Vergine del Rosario di Fontanellato e nel Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Berceto. A questi luoghi, a cui storicamente è concesso questo tipo di privilegio legato al titolo di santuario o basilica, il vescovo ha voluto aggiungere tutti gli ospedali e le cliniche private della Diocesi di Parma.   Questa attenzione è indice della premura della Chiesa di moltiplicare le occasioni di riconciliare i fedeli con Dio e con la Chiesa».
La Chiesa valuta   l’aborto come un peccato gravissimo, per questo non solo chi compie questo atto, ma anche tutti coloro che collaborano incorrono nella sanzione della scomunica.
«Più soggetti vengono ritenuti responsabili – sottolinea don Genovesi –  la donna, non di rado però vittima di forti pressioni psicologiche, il padre consenziente, il personale medico e paramedico che si presta a perfezionare la soppressione della vita umana nel grembo materno. Tutti questi concorrenti nel delitto incorrono nella censura canonica della scomunica “latae sententiae” che  per il fedele laico si risolve nel divieto di ricevere i sacramenti».
La Chiesa, dice don Genovesi,  ha previsto questi meccanismi per far comprendere la gravità del gesto. L’obiettivo   non è   punire
i peccatori, ma  aiutarli a pentirsi e  a  non  ripetere l’errore. «Questa apparente “macchinosità” procedurale – precisa don Genovesi – è dovuta al fatto che la Chiesa
vuol far comprendere la gravità degli attentati alla vita che in un  clima di relativismo morale non destano come si converrebbe una giusta riprovazione da parte della coscienza individuale e collettiva».
La Chiesa è madre, spiega il cancelliere vescovile,  ed è sempre pronta ad accogliere nella verità  le persone che chiedono la riconciliazione. «Spesso – continua  don Genovesi  – le donne che compiono un aborto e si rivolgono a un confessore si trovano in una situazione di coscienza drammatica, e devono sentirsi accolte».
Nel caso di sincero pentimento, le penitenze, oltre ad un  cammino di preghiera e di conversione, riguardano solitamente impegni concreti a favore della vita. «Si propongono adozioni a distanza – spiega don Genovesi – attività  di volontariato  per il Centro di aiuto alla vita e  iniziative simili. Si vuol  far capire al peccatore il proprio errore e  adoperarsi a favore della vita».Fonte